Il giornalismo in carcere: l’esperienza di Bollate

foto federica delogu

di Paolo Aloetti

Angelo Aquino, detenuto del carcere di Bollate si accompagna con la chitarra e canta, con la sua bella voce profonda, “Don Raffaè”, il brano in cui Fabrizio De Andrè ironicamente stigmatizzava il comportamento del brigadiere Pasquale Cafiero, sottomesso ad un boss camorrista rinchiuso nel carcere di Poggioreale.

Ad ascoltare ed applaudire la performance, in una delle sale del magnifico Palazzo delle Albere di Trento, un nutrito gruppo di spettatori, tra cui molti giornalisti.

La giornata finale del Premio Roberto Morrione si sta per concludere con la proclamazione dei giovani vincitori, che nel nome del prestigioso giornalista scomparso si sono confrontati nell’arte non semplice del giornalismo investigativo. Ma prima del suggello definitivo, desta interesse e commozione l’evento apertosi con l’esibizione canora del detenuto; che ha ottenuto dalla Direzione del carcere milanese il permesso per partecipare e poi rientrare rapidamente, la sera stessa, nella sua cella.

Segue infatti, al termine della canzone, la proiezione di ”Jail”, un documentario interamente realizzato da un gruppo di detenuti del carcere di Bollate.

E mentre scorrono le immagini, a volte traballanti ma sempre emozionanti, riprese dagli apprendisti cronisti e cameramen, l’attenzione nella platea si fa profonda.

Parla Domenico, mentre la telecamera lo segue a coltivare un orto lungo le mura esterne della prigione, e intenerisce mentre spiega che quando aveva soldi e diamanti erano nati solo guai e m….; ma che ora, proprio come in un’altra canzone di De Andrè, da quel letame è riuscito, metaforicamente e concretamente, a far nascere fiori e frutti.

Si atteggia a simpatico bullo Maurizio, cresciuto come un rampollo della Palermo bene, che si sente rinato per aver scoperto finalmente, dopo 19 anni di carcere, il significato di un sentimento puro e delle parole caste, che scambia con il suo grande amore Celeste, conosciuta dietro le sbarre.

E colpisce la profondità della detenuta Marina, che si addentra con la telecamera per i corridoi e nella palestra all’aperto del reparto femminile, tra compagne di reclusione che si spruzzano di acqua e cospargono di crema sotto il sole cocente, per non dimenticare la propria femminilità.

I 40 minuti del filmato volano rapidi. Ma il dibattito che segue non è meno coinvolgente.

“A Bollate io ho trovato la speranza -dice Aquino.- Ho visto rinascere in me la speranza di fare le cose. Ho attivato un laboratorio di lavorazione della pelle; tengo lezioni di musica, sono animatore di un gruppo musicale. E faccio il giornalista, scrivo per il giornale interno, Carte Bollate.”

Ecco, dunque, il collegamento prezioso e inatteso tra giornalismo e carcere.

Per scrivere una bella pagina di giornalismo investigativo non c’è bisogno di mimetizzarsi e attraversare Oceani.

Per scoprire e raccontare verità sepolte a volte basta guardare con attenzione nell’orto dietro casa nostra. E questa lezione ci viene da un gruppo di persone che, avendo sbagliato e infranto la legge, decide, perché la struttura glielo permette, di ricominciare da capo e prepararsi a tornare nella società con conoscenze e spirito nuovi.

Anche in una platea così attenta e specializzata, tanti giornalisti, non tutti sapevano quanto sta emergendo.

Nella Casa di Reclusione di Bollate le porte delle celle, non per una sperimentazione ardita, ma perché così recita la legge italiana, restano aperte durante il giorno.

Molte attività sono possibili. Studiare, leggere, lavorare per alcune ditte esterne, fare teatro, coltivare le serre, curare alcuni cavalli. Fare sport, musica. E scrivere per Carte Bollate. “ Un giornale -come spiega dal palco di Trento Susanna Ripamonti, giornalista per molto tempo dell’Unità e ora Direttrice di Carte Bollate – che esiste da 14 anni, nato per iniziativa dei detenuti. Un giornale fatto, pensato, stampato, finanziato dai detenuti. Un giornale che non si occupa solo del malessere in carcere, ma che fa informazione. Travalica le mura del carcere per raccontare il mondo, visto dalla galera.”

“Il laboratorio di Bollate-aggiunge per arricchire ancora un dibattito già molto ricco Giorgio Simonelli, professore di all’Università Cattolica di Milano– ci permette di rompere una barriera. Quella che da sempre divide l’attività laboratoriale e quella teorica“.

Un gruppo di studenti della Cattolica ogni anno infatti entra nel carcere Bollate e si mescola con i detenuti per imparare a fare i giornalisti ed a raccontare insieme la realtà carceraria.

“Imparare a fare i giornalisti entrando in un carcere ha una vitalità- aggiunge ancora Simonelli -che certamente non si esaurisce con lo studiare tra i banchi, in Aula, giornalismo, storia del giornalismo, storia della Comunicazione.”

L’incontro dedicato a “Jail”, il documentario realizzato da e con i detenuti del carcere di Bollate, sta per esaurirsi.

A chiudere in bellezza, così come aveva aperto, è Angelo Aquino, con la sua voce profonda e la chitarra, che decide di fare un omaggio a Leonard Cohen, il cantautore canadese da poco scomparso. Poi, la sua chiosa: “Il carcere è una modalità che può capitare a tutti. Io non ero pronto. Ma ho commesso un errore, ed ora lo sto pagando. Il carcere può essere duro. Ma può far crescere molto. E a me ha fatto anche capire che il tempo è il signore di tutte le cose. Se io lo adopero bene, carcere o non carcere, mi potrà sicuramente tornare utile.”

E, a proposito di tempo, ad Angelo Aquino a questo punto ne resta davvero poco. C’è da correre alla stazione di Trento, prendere il treno che lo riporta alla II Casa di Reclusione di Bollate, dove le porte della cella si chiuderanno dietro di lui.

Mentre i semi che ha portato tra i giornalisti, giovani e meno giovani, del Premio Morrione, hanno già iniziato a crescere e germogliare, per trasformarsi in informazione e sentimenti. Le armi semplici e profonde che non mancarono mai a Roberto Morrione e che costituiscono parte fondamentale della sua eredità.