Paura al Cairo. Intervista alla ricercatrice Silvia Rocchetti

Il caso dell’omicidio di Giulio Regeni, il ricercatore italiano sequestrato, torturato e ammazzato dalla polizia egiziana al Cairo, ci pone di fronte a un’evidenza: la tragedia si è svolta in un Paese del quale, oggi, sappiamo pochissimo. La disattenzione, la trascuratezza, la spesso vile indifferenza che nelle cronache italiane è subentrata all’entusiasmo che le riempiva all’epoca della rivoluzione contro Mubarak, sono la firma apposta sotto un modo di pensare, che si rivela ora in tutta la sua rozzezza. All’indomani dell’uccisione di Regeni, pochi tra di noi trovano le parole per chiederne ragioni, sia sul piano diplomatico che su quello operativo, quello delle indagini.

Dunque: che cosa succede in Egitto? Perché un ricercatore italiano, dottorando del prestigioso ateneo britannico di Cambridge, può essere rapito, torturato e ucciso dalla polizia? 

Abbiamo provato a chiederlo a Silvia Rocchetti che – dopo gli studi di scienze politiche e relazioni internazionali alla “Carlo Bo” di Urbino – si è trasferita a Londra per studiare il Medio Oriente presso il SOAS (la School of Oriental and African Studies). Silvia ha trascorso un periodo al Cairo per completare la sua laurea specialistica (un MSc in Middle East politics) e ha potuto osservare da vicino quel mondo.

  • Silvia, perché ti interessa il Medio Oriente?

Il Medio Oriente ha cominciato ad interessarmi per due motivi: il primo è la vicinanza geografica con l’Italia. Ci mettiamo un quarto del tempo per arrivare in Nord Africa rispetto al Nord America; eppure degli States seguiamo ogni respiro, ma di questa gente che sta sull’altra sponda del Mediterraneo non sappiamo nulla se non che è gente “strana” che fa coprire i capelli alle donne; per farti capire, anche persone di cultura medio-alta mi hanno chiesto, quando sono partita per il Cairo, se fossi obbligata a portare il velo… manco andassi a Riyadh! Il secondo, collegato al primo, è che anche dai libri di storia universitari, come dal mio libro del liceo, l’impero Ottomano spariva con la guerra contro l’Impero Romano per riapparire, improvvisamente, durante la prima guerra mondiale. Allora mi sono detta: è passato qualche giorno, no? In questo arco temporale questa gente qualcosa avrà pur fatto. 

  • Quando sei andata in Egitto? E quanto tempo hai trascorso lì?

In Egitto ci sono andata nell’estate del 2015, a fare ricerca sul campo per la mia tesi di Master, che puntava a capire dove si potesse collocare l’esercito nel ‘discorso politico‘ egiziano. Sono voluta andare per capire che aria si respirasse dopo la presa di potere di al-Sisi; l’esercito, come spesso nella storia egiziana, si era eretto a salvatore della patria; e al-Sisi stava cercando di costruire un’immagine di sè quasi mitologica: c’era già chi lo paragonava a Nasser. Mentre telegiornali e giornali di Stato (gli indipendenti sono stati chiusi dopo pochissimo tempo), lanciavano l’immagine di un presidente adorato, senza obiezioni né opposizioni. 

  • Qualche esempio?

Ricordo un servizio di un telegiornale nazionale che pubblicizza la vendita di cioccolatini con sopra stampata la faccia di al-Sisi. Tragicomico, no? Ecco, volevo capire quanto di questo fosse vero, sapere soprattutto che fine avessero fatto quelli che tutti chiamano “i ragazzi di piazza Tahrir”, a parte le migliaia che erano in carcere, ovviamente. 

  • Come sei entrata in Egitto? Come ricercatrice? 

No. Io in Egitto sono entrata da turista. Quando ho deciso di partire, l’ho fatto perché una cara amica egiziana si è offerta di mettermi in contatto con qualcuno del posto che mi avrebbe aiutato a orientarmi e avrebbe cercato di tenermi fuori dai guai, lontano da zone pericolose. Ci ha tenuto particolarmente a farmi presenti due cose: uno, che il mio punto di riferimento al Cairo non sarebbe stato un attivista: lei non voleva assolutamente che mi si vedesse troppo in giro con gente conosciuta per essere stata attiva politicamente. La seconda cosa è stata di evitare assolutamente di dire a chiunque di non fidato che stavo facendo ricerca, in generale, e tanto meno che stessi studiando l’esercito. 

  • Era considerata un’attività pericolosa?

Temeva che la paranoia che il regime aveva instillato nella gente comune per gli stranieri avrebbe potuto crearmi grossi problemi. Come darle torto, oggi?

  • In Egitto c’è una diffidenza particolare verso gli stranieri?

Dalla nascita della Repubblica chiunque sia stato al comando ha cavalcato la costante e continua paranoia dello straniero che cerca di boicottare la prosperità, la serenità, e l’unità nazionali. L’America, Israele, la Russia, dipende dal momento storico, ma lo “straniero” è sempre da guardare con sospetto. Superato questo mood di fondo, gli Egiziani adorano gli stranieri e ti riempiono di cibo, attenzioni e ti vogliono portare dovunque. Vogliono farti vedere tutto quello che c’è da vedere della loro terra, il bello e il marcio. Gli attivisti, poi, mi hanno trattata come se fossi scesa dall’Olimpo: “vieni da quella parte del mondo dove effettivamente si può parlare senza rischiare di finire in galera”… “hai accesso allo studio, sei una delle pochissime persone che conosco che non è ricca, ha studiato e disprezza lo status quo”. Per molti di loro sei un animale curioso e affascinante… esotico. 

  • Dove risiedevi, al Cairo?

Li chiamano “compound”, immensi terreni comprati da ricchi per costruire e vendere case ai ricchi, ed è in uno di questi che vivevo io. Una casa costruita secondo gli standard della classe media italiana, non una villa o ua residenza di lusso. Ma esistono anche quelle, certo. 

  • E gli altri? La popolazione locale?

Le condizioni di vita della gente sono abbastanza miserabili. Moltissimi vivvono nelle “case popolari”. Lì i muri hanno buchi rettangolari al posto delle finestre e non arriva acqua pulita. Ci sono anche persone che dormono nelle moschee, perchè non hanno altri luoghi di riparo dal caldo, dai miasmi dell’immondizia che è sparsa ovunque, dallo smog. 

  • La sicurezza? Intendo: l’ordine pubblico, i furti…

Nemmeno la moschea ti ripara, al Cairo. La prima cose che un cairota ti dice prima di entrare in Moschea è “tieni stretta la borsa”.  Da qualche parte ho la foto – sfocata, perchè presa da lontano – di un bambino seduto a terra che toglie i pidocchi alla mamma addormentata, con la testa poggiata su buste di plastica che contengono, credo, più o meno tutto quello che hanno. Anche questo ho visto, in una moschea del Cairo. Ma i miei amici nei “quartieri poveri” non mi ci hanno voluto portare.

  • Parlami degli studenti che hai conosciuto. Furono loro l’anima della piazza che si sollevò contro Mubarak. Che cosa ne è rimasto, in termini politici?

Gli studenti egiziani non sono tutti rivoluzionari. Alcuni lo sono tanto, altri lo sono stati di passaggio nel 2011; della serie: “qualcuno era comunista per moda, qualcuno per principio, qualcuno per frustrazione”…

  • Gaber?

Sì, Gaber sul Nilo.

  • E gli altri?

Ho parlato con parecchi studenti universitari, tutti di classe medio-alta (università privata, 30-40.000 sterline egiziane l’anno, a fronte di uno stipendio medio, per un’operaio, che si aggira intorno alle 800-1000 sterline egiziane al mese). Ci sono quelli che in piazza ci sono andati per far cadere Mubarak, chiedendo un cambiamento che neanche loro sapevano ben delineare. 

  • Quel è lo stato d’animo, l’atteggiamento di questi giovani, oggi?

Nel post-Mubarak il loro umore si potrebbe riassumere così: “non è cambiato niente, non cambierà mai niente, teniamoci fuori dai guai e ricominciamo la nostra vita normale: si esce il fine-settimana, si va al cinema, in vacanza…”.

  • Vuoi dire che è subentrata una certa indifferenza?

Più che di indifferenza parlerei di una certo fatalismo. Il ragionamento che ho sentito, anche tra quelli ai quali al-Sisi non piace affatto, è che “alla fine io mangio, non mi rompe le palle nessuno, ho la servitù a casa, tutto sommato chi se ne frega, abbiamo giocato alla rivoluzione per un po’, ma ora basta”.

  • Un quadro desolante, sembrerebbe.

Non ci sono solo quelli. C’è anche chi nella rivoluzione ha creduto davvero. Quelli che ci credono ancora e ancora combattono, ma sono pochi e vengono continuamente vessati: la gran parte è stata arrestata almeno una volta.

  • Ecco. Parla della repressione poliziesca. Che cosa ti hanno raccontato?

Molti oppositori, attivisti, hanno subito pestaggi o tortura. Uno dei ragazzi che ho incontrato è sterile, perché la polizia l’ha torturato con scariche elettriche sui testicoli. 

  • Per quali accuse lo hanno trattenuto e torturato?

Gli ho chiesto cosa volevano sapere, perché lo torturassero, mi ha risposto: “Non mi hanno chiesto niente di specifico, mi hanno torturato perché possono”. Un altro è stato in prigione per qualche settimana, so che l’hanno picchiato ma non conosco i dettagli perchè so che ha tentato il suicidio già due volte, da quando è uscito; e non volevo infierire, non aveva senso per la mia tesi sull’esercito indagare su particolari scabrosi. I più fortunati, poi, ricevono minacce indirette.

  • Per esempio?

La storia di una mia collega di università, egiziana, una che ha fatto ricerca sul campo analizzando l’arbitrarietà con cui la polizia svolge il suo ruolo e quanto effettivamente debba poi rispondere del suo operato al governo. Suo padre, che vive al Cairo, ha ricevuto una chiamata anonima di un non meglio specificato “funzionario di sicurezza” che gli consigliava di fare in modo che sua figlia non parlasse con “certi personaggi” (persone che hanno subito torture o pestaggi in carcere), perché “noi sappiamo che lei viene da una buona famiglia e non vogliamo che si metta nei guai”. Altri ancora hanno visto crollare le proprie prospettive di vita: l’espulsione dall’università, per esempio, ti relega nel sottoproletariato, al Cairo. È una condanna anche quella. I casi sono stati numerosi. (Si veda quello della German University of Cairo)

  • La presenza della polizia è percepibile, oppure è nascosta?

Molto spesso, nei campus universitari, durante le proteste c’era sempre presente almeno un esponente dei servizi di sicurezza, sempre in borghese. La schedatura è stata universale, direi.

  • E la Rete? Anche Internet e i social hanno svolto un ruolo. Sono controllati?

Certo. C’è stata la sospensione di una studentessa di scienze politiche alla British University of Cairo, perché aveva postato su Facebook delle frasi contro il governo di al-Sisi. Il suo comportamento “era contrario agli standard dell’Università”. Cito testuali parole dette da lei, l’email di sospensione non l’ho mai letta. Ma è l’esempio perfetto di chi ci credeva e ha mollato: ancora su Facebook qualcosina scrive, ma sono più che altro borbottii. Mi ha detto che non ne voleva più sapere della partecipazione attiva alla politica perchè “la maggior parte dei miei amici sono in galera. La maggior parte! E alcuni sono spariti, non sappiamo dove siano”. 

  • Quindi secondo te il controllo sui social network è effettivo.

Non so fino a che punto. So soltanto che i cittadini si sentono sotto sorveglianza. Molti dei miei contatti si rifiutano di comunicare con me usando Facebook, usano Telegram sperando che non venga intercettato, Da quando è morto Giulio Regeni, il vice presidente dell’associazione studentesca non risponde più ai miei messaggi neanche su Telegram. So che sta bene e che non ce l’ha con me perché ancora siamo “amici” su facebook e lo vedo pubblicare qualcosa ogni tanto, credo non mi scriva per paura non so di cosa. Se per me, per se stesso, non so, ma questo rende l’idea dei livelli di paranoia che si raggiungono. Si dice, per esempio, che qualcuno abbia ricevuto degli SMS intimidatori dal governo che intimava di smettere di infangare il presidente o l’amministrazione in generale.

  • Puoi fornire prove, di questo?

Sono solo screenshots che ho visto su facebook, facilmente falsificabili e quindi non attendibili. Il fatto è che moltissime persone li considerano credibili.

  • Il governo dei militari, per quanto ti risulta, gode davvero di un concreto appoggio tra la popolazione?

Tra quelli che sostengono al-Sisi (pochissimi, in base alla mia esperienza) c’è moltissima paura dello spettro con la barba. Credono profondamente alla propaganda filo-governativa che sostiene che Morsi fosse in contatto con gli Americani per vendergli segreti di Stato … per loro è meglio un dittatore patriottico che uno religioso. 

  • Hai potuto conoscere qualche fratello musulmano, al Cairo?

No. Proibito. Pericoloso. Vietato. Lo ripeto: i responsabili, anche di basso livello, sono finiti tutti in galera. Qualcuno ancora resiste e spera, ma non ha un programma e si lamenta della repressione governativa, del monopolio governativo sui media e del controllo sui social media operato dai servizi di sicurezza che gli impediscono di comunicare il proprio messaggio politico. 

  • E Morsi?

Morsi è visto come un incapace. Qualcuno, come accennavo prima, si lascia convincere da ipotesi complottiste poco credibili; chi milita nei partiti di opposizione, per quel poco che è rimasto fuori dal carcere, pensa che fosse un ingenuo che pensava davvero che l’esercito l’avrebbe fatto governare… Un illuso che invece è finito male.

  • Le altre opposizioni?

Le opposizioni sono sempre state divise in Egitto, quelle a sinistra in particolar modo. Non sono riuscite a presentare un candidato comune dopo la caduta di Mubarak, e sono rimaste (politicamente) inermi davanti al colpo di stato militare, anzi probabilmente in molti non si sono neanche resi conto che fosse in atto un colpo di stato, pensavano a un’altra piazza Tahrir. Lo dico perché in molti hanno appoggiato l’intervento dell’esercito. Certo è che chi si è opposto apertamente è finito in galera. Soprattutto, come sai, i Fratelli Musulmani. 

  • Insomma: regna la paura.

Migliaia di arresti e sparizioni forzate hanno impaurito e scoraggiato non solo chi è stato arrestato, ma anche chi gli sta intorno. C’è un esponente dei Socialisti Rivoluzionari che mi ha detto, testualmente: “tieni presente che per ogni arrestato ci sono un padre, un fratello, una madre, una sorella, un amico, una fidanzata che soffrono e hanno paura di combattere. Paura per se stessi, e per il proprio caro che non si trova, che potrebbe essere ucciso”.  

  • E tu? Giovane studentessa in gita?

La vita quotidiana di una studentessa italiana al Cairo è un altalenarsi di emozioni. Sei donna e per di più occidentale, quindi devi stare attenta perché qualsiasi uomo ti veda potrebbe potenzialmente considerarti una puttana e sentirsi autorizzato a violentarti. Lo stupro al Cairo non è un evento eccezionale. Girare da sola al calar del sole è da evitare, a meno che non accada tra le mura sicure di un compound, come quello dove vivevo io. E anche lì è bene tenere gli occhi aperti. 

  • Un’ultima domanda. Conoscevi Giulio Regeni?

No. 

  • Ti sei fatta un’idea sulla sua morte?

Non credo si possa parlare di “omicidio di Stato”, nel senso che qualcuno a livello governativo abbia richiesto di uccidere un italiano di 28 anni che faceva ricerca sui sindacati. Il gioco non vale la candela: ti togli di mezzo un sindacato, ma poi hai i riflettori del mondo puntati addosso. Al-Sisi non sarà un professionista della politica, ma non è un incapace. Il problema è che la polizia e i servizi segreti, laggiù, hanno davvero tanta libertà di manovra. Il governo, già dai tempi di Nasser, ha sempre fatto tantissima fatica a tenerli sotto controllo.  Quindi nulla fa escludere che sia stato un poliziotto o qualcuno dei servizi segreti a farlo fuori. Se veramente è stato preso in mezzo a un gruppo di attivisti, se veramente aveva contatti con questi ragazzi, è possibile che un poliziotto abbia pensato di guadagnarsi una promozione o una mazzetta portando a un superiore qualche nome o notizia cavata fuori da Giulio in qualche modo, senza pensare alle conseguenze diplomatico-internazionali, e forse pensando che non l’avrebbero trovato mai. È brutale, detta così, ma è la realtà.

  • Ma colpire un occidentale è inconsueto. O no?

Il passaporto non è bastato a proteggere Giulio Regeni perché, anche se è pur sempre un passaporto Europeo, è “solo” un passaporto italiano. La mancanza di prestigio si paga ovunque, anche nei discorsi che si fanno al bar, perfino in Egitto: non siamo presi sul serio. 

  • Tornerai al Cairo?

Vorrei continuare a parlare di Egitto in qualche modo. Vorrei tornare a fare ricerca sul campo, andare a vivere lì per un periodo e poter osservare che cosa succede. Vorrei rivedere i miei amici di lì, raccontare quello che cercano di fare. Mi piacerebbe davvero andare, ma sicura che il mio governo sia in grado di tutelarmi, però. 

*Intervista a cura di Stefano Lamorgese, vicepresidente dell’Associazione Amici di Roberto Morrione