Terremoto: il peso delle macerie e delle parole

di Barbara Innamorati*

Quando nella notte, in pieno sonno, il letto comincia a tremare, il cuore batte forte per mettere in circolo l’adrenalina necessaria per reagire alla paura, la mente pensa al ritmo del cuore una sola parola: no! Quando sei in salvo, lontano da quello che fino a un attimo prima era il tuo rifugio, non hai altro che le parole per avvicinarti a chi è lontano: messaggi, telefonate, post su facebook, tweet. Poi le perdi pure le parole, ti restano incastrate in quei posti dell’anima che fanno male, così male che potresti morire di dolore. E una parte di te forse muore davvero insieme agli amici sotto le macerie, al mondo che conoscevi, ai luoghi che amavi vivere. Tutto questo è accaduto la notte del 24 agosto 2016, un dejà vu terrificante per chi ha vissuto solo poco più di sette anni fa la tragedia del terremoto e che adesso sa di poter essere testimone sincero e sostegno per chi la sta vivendo in questi giorni.

Quando tornano, le parole ti travolgono con le loro infinite sfumature. Parole vecchie con nuovi significati, parole nuove a cui dare un significato. Anche questo è il terremoto: cambia la Storia, la Geografia, il Tempo e cambia anche il Linguaggio.

Oggi mi piacerebbe poter chiedere a tutti quelli che per mestiere usano le parole di non trattarle con leggerezza: le parole hanno un notevole peso, sono sale sulle ferite aperte.

Non usate mai la parola “tendopoli” associandola all’idea di campeggio. La tendopoli è un luogo di attesa, l’unica alternativa alla paura. Una volta qualcuno mi ha detto che le tende blu sono comode. No, non sono comode per niente, sono fredde di notte e roventi di giorno, ti senti messo a nudo e hai paura perché non hai scelto quella tenda e stai vivendo consapevole della rovina senza sapere quanto potrà durare il tempo dell’incertezza. Le tende blu, che dentro sono grigie, rendono tutto grigio, come il colore delle macerie e della polvere  che ormai sono nel tuo dna.

Le tendopoli fanno parte di quel meccanismo perfetto che è l’assistenza alla popolazione che è il lato bello di un Paese civile finché non diventa assistenzialismo: il modo più facile per gestire l’emergenza è che la popolazione si ripieghi sul suo dolore e pensi di aver bisogno di tutto. Il modo più sano per ricostruire se stessi è lavorare, sentire la fatica di questo mondo capovolto ed essere parte attiva nel processo di rinascita che dovrà seguire i giorni del dolore. Assistenza vuol dire dunque sostegno, appoggio senza privare le persone della propria autonomia, delle proprie scelte, fossero anche quelle di restare in silenzio e piangere.

Riflettevo su una delle banalità più incomprensibili di questi giorni: quale dei terremoti degli ultimi anni è in testa alla classifica? Chi è il più terremotato? Non posso fare a meno di chiedermi il senso di questo continuo paragone. Se servisse per evitare di ripetere errori passati sarebbe opportuno e doveroso. Ma se invece serve ad applicare la logica del “divide et impera” è una cosa che deve spaventare tutti, in primis chi è fatto oggetto di questo paragone. Ancora termini usati a sproposito, ancora retorica da quattro soldi che, oltre a non portare nulla di buono a chi ne fa uso, ferisce indegnamente persone già ferite.

Il termine “terremotati”, usato come nel più volgare dei cori da stadio, è un’etichetta pesante che definisce la tua vita legandoti in maniera inequivocabile all’evento che l’ha sconvolta. Sono Aquilana: questo già racconta un terremoto ma definisce la mia appartenenza ad un territorio e a una cultura non ad un evento catastrofico. Quindi non chiamateci terremotati, chiamateci persone, cittadini: queste parole hanno in sé il seme della rinascita. Forti e gentili, dignitosi nel dolore, quelli col grande cuore. Va bene tutto, per carità, ma che non sia una trappola per chiuderci in un libro di storia senza darci la possibilità di continuare a scriverla la nostra storia.

Alla fine di questa riflessione, penso che, chiunque scrive, debba essere testimone autentico della Storia che ha deciso di raccontare. Il resto è silenzio.

*Barbara Innamorati, aquilana. Si è laureata in Lettere Moderne con una tesi in Drammaturgia in una tenda della Protezione Civile, tre settimane dopo il terremoto del 6 aprile 2009. Questa vicenda ha segnato la sua storia personale e quella professionale tanto che attualmente è drammaturga e socio attivo dell’Associazione ArtistiAquilani onlus, nata proprio a seguito del sisma per riunire gli artisti della nostra città e ricominciare le attività già a partire dalle tendopoli.