Identikit del giornalista investigativo: capa tosta, schiena dritta e passione. Intervista alla tutor Amalia De Simone

di Alessandra Tarquini

Amalia De Simone sarà tutor nella settima edizione del nostro premio. I finalisti avranno l’opportunità di avere il suo supporto nella realizzazione della loro inchiesta. Reporter da più di vent’anni, ora realizza inchieste per il Corriere.it e collabora anche con la Rai e l’agenzia Reuters. Si definisce “watchdog napoletana“. E’ da sempre in prima linea nel racconto dei fatti al centro delle sue inchieste. Le abbiamo rivolto cinque domande per conoscerla meglio e per capire come intende ricoprire questo ruolo.

  • Perché ha accettato il ruolo di tutor del Premio Morrione? Che cosa significa per Lei?

Perché Roberto Morrione è stato un grandissimo giornalista di inchiesta un esempio per tutti noi. Lui ci ha lasciato un insegnamento importante e cioè che giornalismo può servire anche a cambiare le cose e che bisogna fare squadra e condividere le esperienze. Accettare di fare il tutor per il premio a lui intitolato è uno dei modi per onorare questo insegnamento e per portare avanti la sua memoria. Inoltre mettersi a disposizione dei colleghi più giovani è un dovere e un privilegio.

  • Cosa si aspetta dal giovane under 31 che seguirà nella realizzazione della inchiesta?

Dai giovani colleghi mi aspetto che siano delle “cape toste”, come si dice a Napoli, e cioè delle teste dure. Mi aspetto anche schiena dritta e e tanta passione per un lavoro che oggi come oggi è difficile scegliere per i compensi bassi, le tutele scarse e i contratti sempre più precari.

  • Quando ha capito che la sua professione sarebbe stata quella giornalistica?

Quando ho cominciato ad interessarmi di fatti che nessuno pubblicava ma ritenevo importanti da condividere e conoscere e alla fine ho deciso di approfondirli da me.

  • C’è una inchiesta che considera un esempio da seguire? Se si, quale e perché?

Una delle inchieste che considero un esempio è quella diventata famosa grazie al film “il caso Spotlight“. Si tratta di una indagine condotta da un team di giornalisti investigativi del Boston Globe, denominato Spotlight. L’inchiesta riguardava abusi sessuali su minorenni in numerose diocesi di Boston. Questo lavoro ci insegna che puntare sul giornalismo investigativo e costituire una squadra ad hoc può essere un buon investimento anche per un editore (i nostri difficilmente destinano fondi al giornalismo d’inchiesta). Quella del team spotlight è un’inchiesta condotta con grande rigore, scrupolo e rispetto per le vittime. E’ un’inchiesta che ha cambiato le cose facendo emergere anche i vergognosi tentativi di insabbiamento operati da alcuni fra i vertici della Chiesa per far calare il silenzio su decenni di violenze.

  • Cosa consiglia a chi in questo momento sta scrivendo il progetto di inchiesta per il nuovo bando?

Consiglio di puntare innanzitutto sui fatti inediti, di raccontarli con uno stile originale, di provare a scoprire notizie che nessuno conosce e che invece possono essere utili. Di andare sempre sui posti, di vedere, chiedere, capire per poi provare a spiegare. Consiglio di verificare sempre con rigore tutti fatti che si decide di approfondire. Di tenere sempre presente la tutela delle fonti e il rispetto per le persone e le storie di cui si scrive. Di essere sempre degli “attaccanti” ma anche di avere il coraggio di fare dei passi indietro quando ci si trova difronte ad una storia che non regge le verifiche.