Fare inchiesta? Suole consumate, gambe indolenzite, una fatica continua. Intervista a Federico Ruffo, tutor della settima edizione

di Alessandra Tarquini

Conosciamo meglio i tutor della settima edizione, cioè i giornalisti che supporteranno i  finalisti under 31 del nostro premio nella realizzazione della loro inchiesta. Iniziamo da Federico Ruffo. Classe 1979, una lunga carriera di giornalista investigativo e ora attuale conduttore di Far Web su Rai 3, un progetto sperimentale di inchiesta sugli haters. Cinque domande e cinque risposte per capire come vivrà il ruolo di tutor e alcuni suggerimenti utili a chi in queste ore sta scrivendo la sua candidatura per il bando (che ricordiamo scade il 15 gennaio 2018).

  • Perché ha accettato il ruolo di tutor del Premio Morrione? Che cosa significa per Lei?

Sono cresciuto all’ombra delle inchieste che la squadra di Roberto Morrione ha portato avanti negli anni migliori dell’informazione pubblica. Una squadra di inviati meravigliosi, capaci di inseguire e catturare storie incredibili, cose che dovremmo studiare nelle scuole di giornalismo oggi, storie che oggi incontriamo solo nei film, perché in parte non siamo più capaci di raccogliere, in parte non riusciamo a catturare perché non vengono più forniti tempi e risorse adeguati, c’è sempre tanta fretta, tanta sciatteria. E ricordo bene come a proteggere quella squadra fantastica, a tutelarla, spronarla, nasconderne gli spostamenti fino al momento di piazzare la zampata, ci fosse questo giornalista magnifico, coi suoi baffoni da cronista di lungo corso. Stavo lì, coi miei occhi di ragazzo innamorato di un mestiere tutto da inventare, avrei dato un braccio per fare le fotocopie per loro, per Roberto, per quel dream team che dava un senso al concetto stesso di inchiesta. Poter mettere il mio nome in un angolo della stessa pagina in cui figura quello di Roberto Morrione, non è solo un onore, sarebbe banale, lo considero un vero punto d’arrivo, una di quelle cose che sognavi da ragazzino. E’ un privilegio,qualcosa di cui vado fiero.

  • Cosa si aspetta dal giovane under 31 che seguirà nella realizzazione della inchiesta?

Mi aspetto suole consumate, gambe indolenzite, una fatica continua che però non senti mai, tanto sei innamorato di quello che fai. Questo mestiere prende tanto, si prende tutto della vita di chi lo ama, e indietro dona poco: per farlo seriamente, devi sentirlo come un movimento naturale, qualcosa che è sangue del tuo sangue, quindi o lo senti in questo modo da subito, o meglio che ti siedi e fai quello che le notizie le cucina. Ma la nuova generazione, devo ammetterlo, mi sembra molto più preparata ed entusiasta di quanto non fosse la mia, ho grandi speranze per loro.

  • Quando ha capito che la sua professione sarebbe stata quella giornalistica?

Ho sempre voluto farlo, credo, ma volevo diventare un giornalista sportivo. Al mio ultimo anno di liceo, ad Ostia, successe qualcosa che cambiò tutto. Alle elementari e alle scuole medie ero innamoratissimo della mia compagna di banco, Rebecca. Una bambina timida, taciturna, certi giorni non parlava affatto. Viveva nelle case occupate di Ostia, la sua era una famiglia poverissima. Al liceo la persi di vista. Suo fratello scomparve. Lo cercarono per giorni, telecamere e flash ovunque. Alla fine lo trovarono morto. Una storia tremenda, un vicino di casa pedofilo aveva tentato di violentarlo e poi lo aveva ucciso. Rividi Rebecca dopo anni al tg. Giorni dopo la vidi entrare in caserma, non capivo il perché. Lo scoprii dai giornali: la morte del fratello l’aveva convinta a denunciare il padre, anche lui pedofilo. Aveva abusato di lei per anni. Tutti quegli anni in cui la mattina, come se nulla fosse, si sedeva nel banco insieme a me. Mi trovai a pensare a quante volte era stata molestata e io mi chiedevo perché non parlasse. Mi chiesi quanto sarebbe stato diverso se qualcuno avesse raccontato all’epoca quella storia, se qualcuno avesse raccontato del degrado delle case occupate di una Ostia che era terra di nessuno, forse Rebecca sarebbe stata salvata. Non ho mai trovato il coraggio di contattarla, neanche dopo tanti anni, ma qualcosa cambiò, capii che c’era qualcosa di più utile che potevo fare.

  • C’è una inchiesta che considera un esempio da seguire? Se si, quale e perché?

Ne ricordo tante. Credo che in questo senso abbia fatto scuola la redazione del primo Santoro, quella di Sciucià, il Raggio Verde, Moby Dick. Riccardo Iacona, Corrado Formigli, Stefano Maria Bianchi, hanno cambiato per sempre il modo di girare e raccontare, hanno introdotto la drammaturgia nell’inchiesta, hanno unito il cinema alla realtà. Se dovessi indicarne una in particolare, forse “Tutti Ricchi” di Riccardo Iacona, credo che quel lavoro abbia cambiato per sempre il modo di fare reportage lunghi, introducendo il concetto che la realtà la puoi raccontare con delle suggestioni, mescolando i live in presa diretta alle tue impressioni. Per altri motivi ritengo altrettanto importante l’inchiesta sul fosforo bianco di Sigfrido Ranucci e Maurizio Torrealta per Rainews: la tenacia e la puntualità di quel lavoro, oltre al coraggio di sfidare un mostr onnipotente come lo Stato Maggiore Usa, sono qualcosa da tenere sempre a mente.

  • Cosa consiglia a chi in questo momento sta scrivendo il progetto di inchiesta per il nuovo bando?

Di seguire l’intuizione che hanno avuto, per quanto folle o irrealizzabile sia. Non è mai accontentandosi che porti a casa il lavoro che lascia il segno quello che ti cambia la vita: siate ambiziosi nel progetto, sognate in grande e porvateci. Se la notizia c’è, un modo lo troverete.