a cura di Alessandra Tarquini
L’inviato di Report Giulio Valesini è il tutor, insieme a Cataldo Ciccolella, del team finalista di questa edizione nella categoria video inchiesta e composto da Cecilia Fasciani, Andrea Giagnorio, Sofia Nardacchione.
Classe 1975, Giulio Valesini é in Rai dal 2000, dopo una lunga esperienza alla radio è approdato in televisione come inviato di Ballarò, su Rai3, dal 2005 fino al 2014, quando è entrato nella squadra di Report. Grazie alla collaborazione con l’Icij, il consorzio internazionale di giornalisti investigativi, ha realizzato l’inchiesta sui Paradise Papers e, nel 2018, l’indagine “Implant files” sui dispositivi medici. Sogna di correre una maratona di New York. Il libreria trovate l’inchiesta firmata con Ciccolella “La grande inchiesta di Report sulla pandemia” (ChiareLettere, 2022).
Gli abbiamo rivolto alcune domande per conoscerlo meglio.
Perché hai accettato il ruolo di tutor del Premio Morrione? Che cosa significa per te?
Ricevere l’invito a diventare tutor per me é stato un grande onore. Ho accettato perché lavorare con i giovani è molto stimolante. Mi piace l’idea di trasmettergli qualche cosa di quello che ho imparato in questi anni. Mi affascina tantissimo e mi entusiasma il passaggio di sapere vicendevole, io a loro e loro a me.
Parlando di maestri. Chi sono stati i tuoi?
Ho avuto la fortuna di incontrare tante persone capaci di vedere qualche cosa in me. In radio, dove ho mosso i primi passi in RAI, Giorgio Zanchini. Poi in tv, il primo che ha creduto in me e mi ha mandato fuori con una telecamera è stato Giovanni Floris. Anche se io non volevo fare l’inviato. Lui invece era convinto che io avessi le carte in regola per fare il giornalista d’inchiesta. E poi, più avanti, Milena Gabanelli che mi ha dato tantissimi insegnamenti, partendo dal montaggio video. Poi il maestro “più maestro di tutti” è stato ed è Sigfrido Ranucci. E’ stato quello che mi ha “sgrezzato”, “raffinato” nelle tecniche. All’inizio si metteva a fianco a me e mi spiegava. Fianco a fianco. E’ anche grazie a loro che oggi capisco l’importanza di avere qualcuno che guarda quello che fai e ti dà un consiglio.
Cosa ti aspetti dagli under 30 di questa edizione?
Entusiasmo e coraggio. Una visione delle cose non paludata. Libera da ogni condizionamento. Noi con il passare degli anni, per l’esperienza, abbiamo questi condizionamenti. Noi invece no.
Cosa invece non vorresti?
Io non vorrei giovani che provano a scimmiottare cose che hanno già visto. Devono avere la forza, il coraggio e l’incoscienza di buttarsi in un progetto. Nelle redazioni, i giovani sono quelli che avanzano le proposte meno canoniche, che se lavorate bene funzionano. Credono in quello che fanno e vanno oltre le apparenze. Questa è l’essenza del giornalismo d’inchiesta. E’ andare oltre l’apparenza. La verità va cercata con impegno, fatica, dedizione, coraggio. E’ fondamentale non credere alla verità ufficiale e continuare a cercare.
Quale consiglio su tutti ti senti di dare agli under30 che stanno lavorando al progetto d’inchiesta insieme a te e Cataldo Ciccolella?
Non aver paura di seguire il loro istinto e non accontentarsi mai della prima risposta.
C’è un’inchiesta che consideri un esempio da seguire? Quale e perché?
Falluja la strage nascosta di Sigfrido Ranucci e Maurizio Torrealta (Rainews24, 2005) perché ha dentro il coraggio, la capacità di non accontentarsi della verità ufficiale e la forza di portare avanti questa intuizione. Gli autori sembravano dei pazzi e, invece, la loro determinazione e voglia di portare una verità ha mostrato a tutti il valore di quel lavoro. Oggi più che mai, con i nuovi conflitti in corso, capiamo il valore di quella inchiesta.
Che libro consigliereste di leggere a chi vuole fare del giornalismo il proprio mestiere?
Bandiere nere. La nascita dell’Isis di Joby Warrick (La Nave di Teseo, 2016) sull’ascesa di Abu Musab al-Zarqawi. Perché oltre alla qualità investigativa, questa inchiesta ha anche la capacità di renderne il racconto avvincente. E’ la dimostrazione che non basta avere le notizie, bisogna renderle fruibile e curare la qualità della narrazione.
Quando hai capito che il giornalismo sarebbe stato il tuo mestiere?
Non lo so. Sin da piccolo volevo fare il giornalista. Sapevo che sarebbe stato difficile. Quando poi sono entrato in Rai e ho visto dove si producevano i giornali, l’emozione fu tantissima. La voglia di raccontare i fatti c’è sempre stata. Ma non posso individuare un momento esatto. Ammiravo gli inviati da posti complicati, pericolosi. Il loro coraggio, la loro avventura. ma ciò che mi ha conquistato più di tutto di questo mestiere è l’idea che il giornalista presta se stesso agli altri e fa da tramite tra i fatti e l’opinione pubblica.
Conoscevi Roberto Morrione?
No, ma nella mia redazione molte persone si. Ne ho, quindi, tanto sentito parlare. A Report, tutti ogni tanto ti raccontano di lui. Soprattutto del suo coraggio e dell’attenzione verso i più giovani.