Mettere a nudo il potere nell’interesse pubblico. Intervista al tutor Lorenzo Di Pietro

Nella nona edizione del nostro concorso Lorenzo Di Pietro sarà uno dei quattro tutor giornalistici.  Giornalista, membro dell’associazione di giornalismo investigativo Irpi, oggi cura gli approfondimenti del programma Agorà su Rai3.  In precedenza è stato parte della redazione di “Report”, dove ha lavorato, tra le altre cose, sui database Icij dei Paradise Papers. Gli abbiamo posto cinque domande e con le sue risposte conosciamo la sua idea di giornalismo e con quale spirito si metterà a fianco dei finalisti 2020. Ricordiamo a tutti che il bando è ancora aperto. La scadenza per l’invio dei progetti è stata prorogata al 26 gennaio 2020.

  • Perché hai accettato il ruolo di tutor del Premio Morrione? Che cosa significa per te?
Ricordo bene le difficoltà nei miei primi approcci al giornalismo. In molti mi scoraggiavano, ma qualcun altro ha invece creduto in me e mi ha aperto la sua cassetta degli attrezzi. Condividere quella generosità per me è importante, diventa un onore poterlo fare nell’ambito di un premio giornalistico intitolato a Roberto Morrione.
  • Cosa ti aspetti dal giovane under 30 che seguirai nella realizzazione della inchiesta? 
Mi aspetto onestà, indipendenza, rigore e nessun timore reverenziale verso il potere. Che non abbia pregiudizi e non si affezioni alle proprie tesi. Che verifichi con cura le informazioni, pronto in ogni momento a buttare via tutto e ricominciare. Poi curiosità, metodo e tenacia.
  • Quando hai capito che la tua professione sarebbe stata quella giornalistica?
All’inizio era il fascino per i racconti dei grandi inviati, Ryszard Kapuscinski è stato il mio Giulio Verne. A quei tempi il giornalismo stuzzicava il mio desiderio di avventura. Ma quando ho compreso che la forza di questo mestiere è mettere a nudo il potere nell’interesse pubblico, ho deciso che avrei voluto fare esattamente questo.
  • C’è un’inchiesta che consideri un esempio da seguire? Se si, quale e perché?
È impossibile sceglierne una. Direi che trovo esemplare quella nota come “caso Spotlight“, dal nome dell’unità investigativa del Boston Globe che l’ha scoperchiata. Una serie di abusi sessuali commessi in un lungo arco di tempo da uomini di chiesa nella completa impunità, che lacerano nel profondo tante vittime, al punto che molte non riusciranno a realizzare un’esistenza serena. Tuttavia quelle notizie vengono sempre deliberatamente trattate dalla stampa con superficialità e senza rilievo, come casi episodici, privi di rilevanza e di correlazioni, nel timore di urtare i poteri locali, di perdere appoggi, finanziamenti e di scuotere la sensibilità dei lettori credenti. Finché un nuovo direttore vede ciò che tutti gli altri non avevano visto, e imprime così uno scatto etico sui suoi colleghi, dando il via a una complessa ricerca su documenti, anche storici – su carta, il data giornalismo era di là da venire – e sul campo. Sveleranno un sistema fatto di ricatti, rimozioni e coperture eccellenti, facendo luce su un fenomeno sconvolgente, che presto otterrà una eco mondiale incoraggiando altre vittime a denunciare. Un lavoro serio, rigoroso e rispettoso delle vittime, una sintesi poderosa di ciò che ogni giornalista deve essere pronto a fare di fronte a un indizio.
  • Cosa consigli a chi in questo momento sta scrivendo il progetto di inchiesta per il nuovo bando?

Di essere originale, sperimentare, cercare il proprio linguaggio, guardare alle migliori esperienze internazionali, ma senza cadere nell’imitazione, piuttosto sfruttare il proprio bagaglio di sensibilità ed esperienze di vita per rendere unico e originale il proprio lavoro. Studiare a fondo le carte, ma poi andare sul campo e sollevare ogni sasso, verificando anche ciò che sembra ovvio. Non farsi ingannare dall’andazzo del giornalismo italiano che confonde cronaca giudiziaria e inchiesta, diffidare degli altri e avere fiducia nel proprio istinto.