Three is megl’ che one. Diario dei finalisti della 7a edizione

di Marco CarloneElena PagliaiDaniela Sestito

Parliamoci chiaro: non sempre la situazione complessiva ci risulta chiara e comprensibile. Ci misuriamo con linguaggi tecnici, con la nostra poca esperienza, con un caos di informazioni. Fortunatamente, quando rimaniamo impantanati, emerge il gruppo. Lavorare in tre significa inquadrare ogni singolo dato da angolazioni diverse, analizzarlo dalla propria prospettiva, amalgamare le intuizioni dei singoli. Abilità, esperienze e visioni personali apparentemente lontane si incastrano in maniera inaspettata, diventando complementari.

Aggiungiamo anche che ci capita spesso di svegliarci all’alba, prendere un treno e arrivare a incontrare il nostro intervistato che siamo ancora addormentati, se va bene solo intontiti dal viaggio. Muovendosi in gruppo, le probabilità che almeno uno dei tre abbia preso un doppio caffè al mattino e che sia abbastanza vispo da sfoderare domande intelligenti, aumentano esponenzialmente.

Sia in un caso che nell’altro è solo così che ci pare di funzionare bene: lavorando di squadra.

Vista da fuori, vista da dentro

È passato ormai qualche mese da quando abbiamo elaborato il progetto. Inizialmente si trattava di una questione al di fuori della nostra realtà, che scrutavamo dall’alto per tentare di individuarne i nodi. Le persone che quotidianamente vivevano quel fenomeno per noi erano, sì, testimoni della storia, ma pur sempre personaggi lontani. Noi da una parte, loro dall’altra.

Da qualche tempo,però , facciamo avanti e indietro dal luogo dell’inchiesta, per osservare più da vicino, per farci spiegare meglio da chi è direttamente coinvolto. A parole sembra semplice. Trovi il contatto, monti il cavalletto, accendi la videocamera e cominci con l’intervista. Si parte spavaldi, decisi: in macchina o in treno un ultimo ripasso delle domande, e poi il solito consiglio finale: “mi raccomando, abbiamo poco tempo, cerchiamo di arrivare subito al punto”.

Ben diversa la realtà: quando gli indirizzi mail e i numeri di telefono diventano volti, la situazione si complica. In molti ci accompagnano, ci lasciano entrare nel proprio privato, ci raccontano delle storie. E anche quando questi racconti “non ci servono” per il nostro lavoro, capita di non riuscire a liquidarli con una manciata di parole. A volte, però, queste esperienze personali diventano la cornice che racchiude le problematiche del luogo. La componente umana si infila nell’oggetto della nostra inchiesta che, oltre che di documenti e dati, anche di persone è fatta.

L’intoppo

Abbiamo accumulato mappe concettuali, appunti sparsi e piccoli elenchi per ricostruire il quadro, tappa dopo tappa. Abbiamo un’agenda decisamente disordinata, con gli appuntamenti del mese, i numeri di telefono e gli indirizzi mail, annotati di fretta mentre inseguivamo qualcuno dei nostri interlocutori. Per quel che possiamo, seguiamo il programma che ci siamo dati. Non può che filare tutto liscio.

Poi un giorno capita che – dopo aver pianificato al secondo gli impegni di tutti – ci troviamo dai tre capi d’Italia per un’intervista. L’ufficio dell’intervistato, però, sembra chiuso. “Mi spiace, oggi sono veramente occupato con il lavoro, dovrete tornare un’altra volta…”.

Eccolo qua l’imprevisto dell’ultimo momento, che ti scombussola i piani non solo della giornata, ma dell’intera settimana. Purtroppo non è un caso isolato: di tanto in tanto, quando meno te l’aspetti, ecco il famigerato bidone che si presenta all’orizzonte. Non è il primo, non sarà probabilmente neanche l’ultimo: all’inizio ci rimaniamo male, ma poi impariamo a tenerci sempre pronta un’opzione di riserva per recuperare quel tempo prezioso.