La macchinetta fischia e l’inchiesta prende vita. Diario dei finalisti della 8a edizione

di Maurizio Franco, Matteo Garavoglia, Ruggero Scotti

Appena i nostri sguardi s’incrociano per strada la nostra inchiesta prende vita. Certo, nell’immaginario collettivo quello del giornalismo d’inchiesta è sempre stato un lavoro solitario, fatto di notte, in un nugolo di fumi e di spiriti. E nella realtà oggi va anche peggio, perché la compressione del mercato ci chiede di fare inchiesta in modo sempre più isolato, con il caposervizio di turno che per 50 euro ci vuole in grado di saper far tutto e di essere ovunque, con mille braccia, cento gambe e dieci occhi. Per questo fare questo lavoro insieme significa credere in un futuro diverso, collettivo.

La nostra piccola spotlight è attiva già davanti al bruciacchiato caffè del bar; potremmo parlare della partita, tracannare vino e stramaledir donne e governo prima di passare ai temi della riunione, ma l’entusiasmo ruota più veloce del cucchiaino nella tazza: vogliamo denunciare le cose in modo efficace affinché cambino, e il fatto che ogni volta dobbiamo rintanarci in cucina di uno dei nostri affollati appartamenti da studenti è in qualche modo connesso a tutto quello che in questo paese non funziona.

Perché non funziona, a chi conviene che non funzioni?

Queste sono le risposte che dobbiamo cercare, le domande che dobbiamo porre. Lo dobbiamo fare in quanto giornalisti che prestano competenze e energie ai cittadini attivi, lo dobbiamo fare in quanto cani da guardia del potere. Anche oggi abbiamo meno sedie di quante ne servano, a turno qualcuno deve sedersi sulla finestra, magari non appena l’altro si alza a indicare il punto da focalizzare nella mappa. In effetti, non fossero le nostre connotazioni regionali a scoraggiarlo, sembrerebbe di stare sul set di quei film americani in cui si cerca il serial killer.

Chi è la vittima nella storia che abbiamo deciso di raccontare?

Il buon senso comune, quello descritto nella nostra Carta costituzionale. È lei che dobbiamo difendere, nel suo nome inchiodare i responsabili e denunciare il pericolo che corriamo a non occuparci di alcune trasformazioni in atto.

Sì, ma dobbiamo scegliere il modo migliore per farlo.

Ok, ma è più importante cosa dici o come lo dici?

Un’altra domanda decisiva.

La notizia, cos’è la notizia?

Se può definirsi un fatto nuovo che ha rilevanza pubblica, come agiamo quando quel fatto non è davvero nuovo, ma incancrenito da decenni nel tessuto della nostra società? Come aggrediamo il nuovismo e l’allarmismo di un giornalismo fast food che non ha più l’interesse di andare oltre il proprio titolo?

Se il fatto non è nuovo ci sarà di sicuro un modo nuovo per raccontarlo. Ecco, è su questo nodo che abbiamo deciso di concentrare i nostri sforzi, di far convergere le nostre competenze specifiche. La divisione del lavoro, l’organizzazione delle interviste da fare, dei video da montare e delle immagini da realizzare viene adesso più facile da immaginare: tutto cade a cascata secondo una gerarchia chiara, cristallina. La notizia è l’acqua che scorre, ora abbiamo in mente la forma precisa del corso che le faremo prendere perché irrori i campi della conoscenza, perché abbandoni le forme carsiche e ritorni in superficie, nelle vite di ognuno attraverso gli smartphones. È una strada innovativa, mai tentata prima. Alziamo gli sguardi dai devices e cerchiamo di nuovo di incontrare quello degli altri. L’inchiesta prende vita e sarà bello vedere se da grande sarà come la immaginiamo insieme.

La macchinetta ha fischiato, un altro caffè è pronto.