Quale giornalismo nel servizio pubblico? Una riflessione di Piero Badaloni

badaloni_pierodi Piero Badaloni

Esistono tanti modi di fare giornalismo, ma paragonarsi a quel mostro sacro di Enzo Biagi per difendere il proprio è la cosa più sfacciata che si poteva fare. Mi riferisco a Bruno Vespa e a quel suo salotto televisivo che la Rai ci impone da ben diciannove anni sulla prima rete tv.

Per giustificare la sua scelta di invitare in quel salotto due esponenti della famiglia Casamonica, a capo di una organizzazione criminale che spadroneggia a Roma, da troppo tempo indisturbata, Vespa si è rifatto a Biagi e alle sue interviste a Sindona e Buscetta. Nessuno ha avuto nulla da ridire su quelle interviste, ha detto l’ex direttore del Tg1, graziato vent’anni fa dopo il suo fallimento a capo del primo telegiornale d’Italia, e premiato con la concessione dello spazio serale quotidiano per fare il suo Porta a Porta.

 Ma come si può mettere sullo stesso piano il rigore con cui Biagi intervistò quei delinquenti, con il “ruffianesimo e la dolce impertinenza riservata da Vespa a tutti i potenti, Casamonica compresi?”, come scrive Francesco Merlo in un articolo su Repubblica?

Le risatine spensierate del padrone della “Terza Camera della Repubblica” come ormai purtroppo, è diventata Porta a Porta, grazie anche alla complicità dei tanti politici che la frequentano, quelle risatine che accompagnavano le interviste a Vera e Vittorino Casamonica, “hanno spacciato lo stile sconnesso e selvaggio dell’illegalità della suburra romana per vitalissima tradizione popolare da proteggere come il ladino”, scrive Merlo.

Il problema dunque non sono i Casamonica in tv, lo scandalo è l’ammiccare untuoso sul palcoscenico della tv pubblica del conduttore della trasmissione. Il giornalismo, conclude Merlo nel suo articolo, può essere talento, o solo mestiere, ma è sempre distanza, onesta verifica, scavo e contraddittorio vero.

Tutto il contrario di ciò che fa Vespa, sempre proteso a compiacere i suoi ospiti, dalla scrivania di Berlusconi, al risotto di D’Alema, al selfie con Grillo. E adesso con la figlia e il nipote del boss morto in odore di beatitudine, secondo la famiglia.

Ho voluto citare l’esempio di Bruno Vespa e l’articolo di Francesco Merlo, per definire, come mi è stato chiesto, qual’ è la mia idea di giornalismo, quella a cui mi sono ispirato per quarant’anni come dipendente del servizio pubblico e continuo ancora adesso ad ispirarmi una volta lasciata la RAI per raggiunti limiti di età.

Ho preferito partire da ciò che per me è un modo scorretto di intendere la nostra professione, per arrivare a indicare coloro che, al contrario di Vespa, sono stati i miei punti di riferimento quando ho cominciato a lavorare al TG1, e cioè il primo direttore di quel telegiornale, Emilio Rossi, e il mio capo nella redazione cronaca, Roberto Morrione.

Sono loro che hanno insegnato a una generazione di giovani giornalisti a svolgere il nostro mestiere, interpretando in maniera corretta il ruolo di servizio pubblico che la Rai deve svolgere per rispetto ai suoi telespettatori.

Anche Vespa proviene da quel Tg1, ma dalla maggioranza della redazione, me compreso, fu sfiduciato poco dopo esserne stato nominato direttore, anni dopo Emilio Rossi, proprio per aver tradito quei principi di onestà, equilibrio, distacco nel raccontare le notizie nei tg quotidiani e ad approfondirle negli spazi settimanali degli speciali, che ci aveva insegnato il cattolico Rossi nei primi sei anni di vita del Tg1 e che il laico Morrione aveva difeso a spada tratta prima di lasciarlo per svolgere la sua professione in altre testate.